Il problema della consanguineità

Sul mensile ENCI di aprile trovate in apertura un articolo interessantissimo firmato dai professori Marelli e Polli del Dipartimento di Medicina Veterinaria di UniMi (di certo non considerabili “nuove leve”), che parla del problema della consanguineità nelle razze moderne, con un’estesa bibliografia.

Vengono sottolineati, in particolare, quelli che sono ad oggi riconosciuti come i più comuni effetti dell’eccessiva consanguineità nelle razze canine: l’aumento in frequenza degli alleli recessivi e deleteri, l’aumento dell’omozigosi, la riduzione del pool genetico, la minor longevità, la minor fertilità e l’aumento della mortalità alla nascita, l’indebolimento del sistema immunitario. Il tutto può in qualche modo essere ricondotto alla “depressione da consanguineità”, ossia alla sempre più ridotta frequenza di alleli allo stato eterozigote, che determina un effetto degenerativo che, a sua volta, influisce negativamente sulle caratteristiche fenotipiche degli individui, rendendoli più “deboli”.

Cosa significa tutto questo? Pensate alle razze canine come a un sistema chiuso: per definizione è molto complicato portare nuovi geni all’interno di una razza, poiché l’iter per introdurre nuovi soggetti non è semplice, e talvolta nemmeno possibile. In questo caso, il pool genetico a disposizione degli allevatori è limitato e destinato, per via della deriva genetica, a una inesorabile erosione. Ebbene sì, statisticamente, in una popolazione chiusa, la variabilità genetica può solo diminuire nel tempo. Questo si traduce in una grande responsabilità per gli allevatori, che dovrebbero mettere in atto tutto ciò che è in loro potere per rallentare il più possibile questa erosione del patrimonio genetico disponibile.

Perché questo accade? Accade perché ogni volta che noi selezioniamo positivamente un gene che “ci piace”, stiamo allo stesso tempo escludendo qualcosa che non ci piace, e ripetendo questa scelta per generazioni consecutive stiamo di fatto cancellando quel gene. Il problema diventa ancora più serio quando si alleva in consanguineità, perché individui tra loro parenti hanno statisticamente maggiori porzioni di genoma uguale, e facilitano quindi la diffusione di un singolo allele (quello che a noi piace), e la perdita di quello che non ci piace, aumentando così la velocità con cui si riduce il pool genetico.

Tutto qui, direte voi? Non proprio. Il discorso sembra semplice, se immaginiamo di applicarlo a caratteristiche definite, ben identificabili e dal basso impatto sulla salute, come il colore del mantello o la forma di un viso, ma la genetica è molto più complessa di così. Geni anche molto diversi tra loro sono in realtà legati, ci sono gruppi di linkage, enhancer e silencer comuni, il cui funzionamento è chiaro solo in parte e difficilissimo da prevedere. In pratica, ogni volta che noi “spostiamo” un gene, andiamo ad alterare in modo imprevedibile anche l’espressione di ciò che gli sta attorno. Potremmo rimuovere o modificare un gene che codifica per il pelo scuro, e alterare l’espressione di un ormone della crescita per esempio. E non pensate che sia così strano, perché è proprio quello che accade in alcune razze con patologie legate all’occhio azzurro.

E se usassimo questo metodo per migliorare le razze eliminando gli alleli deleteri? Purtroppo ad oggi non è possibile. Come sottolinea l’articolo, attualmente non siamo in grado di operare uno screening così preciso dei riproduttori, e anche se lo fossimo sarebbe molto complicato. La maggior parte delle malattie sono infatti multi-fattoriali, ed è molto difficile risalire a tutti i geni coinvolti. Pensate a un disordine metabolico: sono tantissime le proteine coinvolte in una via, e quindi tantissimi sono i geni coinvolti nella loro codifica. Potrebbe bastarne anche solo una per “rompere” l’intera catena. Come identificarla? Inoltre moltissime delle mutazioni che causano queste malattie sono casuali e frequenti, e si ripropongono nella popolazione continuamente, anche in assenza di portatori.

Lo strumento migliore di cui disponiamo oggi per rallentare questa continua perdita di patrimonio genetico è quindi l’outbreeding. Incrociare individui non imparentati, infatti, è il metodo scientificamente più efficace per mantenere alta la variabilità genetica nella razza e per diluire quanto più possibile il rischio che si diffondano alleli deleteri. Ciò non significa che linebreeding e inbreeding non debbano mai essere usati: sono due strumenti potenti nelle nostre mani, e ENCI stessa nel suo regolamento permette l’inbreeding a fronte di un progetto allevatoriale motivato (e si spera scientificamente corretto); ma dovrebbero essere due metodiche “eccezionali”, da utilizzarsi con parsimonia, e non come regola. Perché per quanto un allevatore possa essere attento, la verità è che oggi non disponiamo di tutti gli strumenti necessari per distinguere un cane con fenotipo e genotipo corretto da uno con fenotipo corretto e genotipo deleterio; in poche parole, non siamo sempre in grado di identificare i portatori sani. Lo facciamo per alcune patologie di cui ci è chiara l’eziologia, come la polineuropatia, ma questo non basta per mantenere sana una razza.

Link all’intera pubblicazione qui.

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